V

IL PROBLEMA CRITICO DELL’ «ORLANDO FURIOSO»

Uno studio sullo sviluppo del problema critico dell’Orlando aiuta ad intendere la vera natura del poema ariostesco soprattutto in quanto mostra chiaramente l’inattaccabilità di quel mondo poetico da parte di posizioni critiche formalistiche o contenutistiche, di modi interpretativi che non abbiano avuto la forza di risalire fino alla sorgente unica di una poesia che non si può isolare in un preciso e particolare contenuto stimolatore, in un motivo astratto, in un tema che non sia quello vastissimo e pur concreto del senso della vita in una espressione totalmente fantastica. Incapacità di molta critica a trovare il tono di quella poesia appunto per la mancanza di facili «guide» contenutistiche, per la sua estrema natura di caso limite rinascimentale e ben lontano d’altra parte da una preziosa illustrazione giudicabile solo come coerenza di fregio. Donde la grande utilità di una storicizzazione del problema critico dell’Orlando per approfondire la natura della poesia ariostesca fuori dei limiti di un impressionismo fugace e di una ricerca di un nucleo ispirativo solo come trama di avventura e di psicologia.

All’uscita del Furioso la presenza del Mambriano e magari anche dell’Orlando boiardesco doveva servire a sviare la comprensione del poema in un problema di paragoni e di esami con la poesia cavalleresca (maggiore o minore riuscita nel descrivere un duello ecc.) o nei termini di un semplice «divertimento», mentre il rapido sopravvenire dell’aristotelismo portava l’Orlando al paragone con la logica esteriore della realtà naturalistica, o delle regole e dei generi letterari. E quindi le constatazioni circa le incongruenze del racconto e le distrazioni (eroi morti che ritornano a combattere) attribuite, nella migliore ipotesi, con un certo sorriso di indulgenza, a quel ritratto di poeta divinamente distratto che aveva la sua riprova nel ritratto aneddotico dell’Ariosto che se ne va a spasso per chilometri e chilometri con le pianelle.

Anche l’amore grandissimo di Galileo, che dedicò una cura minuziosa e pedantesca a staccare dal poema paragoni, sentenze quasi a formarne un florilegio esemplare, un cielo di fulgidi fiori retorici, e che sembrò studiare a lungo il Tasso solo per mostrarne l’inferiorità rispetto all’Ariosto, non testimonia una comprensione aderente, ma solo una istintiva passione per la limpida varietà del canto ariostesco che viene poi a giustificarsi in clima ormai controriformistico come dignità, come profondità sentimentale e drammatica[1].

A mano a mano che si procede nel Settecento razionalistico e musicale, si consolida piú chiaramente l’impressione «rossiniana» (o meglio piú sottilmente «mozartiana») dell’Orlando con la sua varietà multiforme senza ostacoli, con l’avventurosità del suo ordine capriccioso e ferreo. Lo stesso Voltaire, nel rendere omaggio all’Ariosto, forse stimolato anche dai consigli bettinelliani, mentre avvertiva la grandezza dell’Orlando («È vero che l’Ariosto ha piú fecondità, piú ingegno e piú immaginazione egli solo che tutti gli altri insieme e che, se Omero si legge quasi per un dovere, l’Ariosto si legge e si rilegge per piacere»[2]), lo condannava in nome dei generi e come qualcosa di piú dilettevole che serio, come il prodotto di chi si abbandona senza controllo all’immaginazione e al suo disordine: tipica reazione illuministica ad uno stimolo cosí potente del suo gusto musicale per un «amabile disordine» e ad un’offesa cosí potente al suo culto geometrico delle regole. Piú tardi, nel 1771, quando nel Dictionnaire philosophique volle riparare al giudizio precedente («Altra volta non osai annoverar l’Ariosto fra i poeti epici, e lo considerai soltanto come il primo dei grotteschi; ma rileggendolo l’ho trovato tanto sublime quanto piacente, e gli faccio umilissima riparazione»[3]), il punto nuovo dell’indagine voltairiana non è tanto la rivalutazione del «sublime» ariostesco, quanto l’insistenza sulla divina varietà, sulla piacevolezza e sulla superiorità del poeta alla materia che tratta, sul riso ariostesco, che troverà largo sviluppo dal razionalismo voltairiano al romanticismo del Gioberti. «A lui solo fu dato d’andare e venire da queste descrizioni terribili alle piú voluttuose pitture e da queste pitture alla piú sana morale. [...] V’ha nel suo poema forse tante storie quante avventure grottesche; ma il lettore s’abitua cosí bene a quella screziata varietà, che passa dall’una all’altra senza stupore»[4]. Mentre la battuta del Tasso di Goethe accentuando, in un senso di superiore serenità, il tono «giocoso» su cui dal Cinquecento in poi avevano discettato i problematici del serio e dello scherzoso, tende ad illuminare la natura florida della poesia ariostesca non soggetta a caduta di motivi occasionali:

dessen Scherze nie verblühen[5].

Con il Romanticismo e con la nascita di una vera critica letteraria, i termini del problema ariostesco si avviano, attraverso la rinverdita disputa sul serio, giocoso, epico o ironico, alla preminenza della qualifica «ironico» per indicare da un lato il fatto che l’Ariosto assume il mondo cavalleresco come puro materiale e dall’altro che egli si libera dal tragico della morte della cavalleria con il riso di chi appartiene a un nuovo mondo. Ironia che poteva apparire venata anche di malinconia come nel famoso sospiro ambiguo, «O gran bontà dei cavalieri antiqui», ironia che agli occhi delle due schiere reazionarie e progressiste prendeva un tono di beffa sacrilega o coraggiosa su ogni istituzione sacra e profana. E sorgeva cosí, molto arbitraria, l’attribuzione di una satira ideologica che già Voltaire aveva sottolineato in certi brani specialmente «irrispettosi» come «il mio lodato Cristo» del XXXV. Ma prima della tipica impostazione romantica che dalle sue forme piú ingenue sale alla sua coscienza piú alta nel Gioberti e nel De Sanctis, un’accettazione scarsamente motivata, ma piena e adeguata è nel Foscolo[6].

Il Foscolo ha già un’immagine altissima della poesia ariostesca nella Notizia intorno a Didimo Chierico: «Aveva non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: cosí vien poetando l’Ariosto[7]. È nel Saggio sui poemi narrativi, saggio del periodo londinese, che il Foscolo si occupò esplicitamente dell’Orlando. Uno scritto che riflette pregiudizi tradizionali: quello dei caratteri ben individuati, quello della varietà eccessiva[8] e quello di una confusa distinzione fra il «dipingere» di Omero e il «descrivere» dell’Ariosto. Ma c’è insieme un motivo che resterà fondamentale come centro non bene approfondito di tutta una intuizione dell’Ariosto fino alle chiarificazioni contemporanee: «Palazzi aerei, fate, l’anello che rende invisibile chi lo tiene – la lancia d’oro

ch’al fiero scontro abbatte ogni giostrante,

– il cavallo alato, la salita alla luna; e tante altre strane finzioni che negli altri poeti ci divertono e insieme ci movono a compassione sulla credulità della moltitudine, vengono tutte rappresentate dall’Ariosto come se fossero creazioni fantastiche veramente della natura. Che se vi pensiamo alcun poco, non possiamo loro dar fede, pure, mentre leggiamo è appena possibile di soffermarci a pensare».

E sempre coerentemente: «L’Ariosto ci padroneggia ognor piú tra per la sospensione nella quale ci tiene una serie tanto variata di casi e per la confusione che questi producono nella memoria. Nell’istante medesimo che la narrazione di un’avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorio di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi; poi si precipitano in direzioni diverse; talché il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all’armonia de’ mille stromenti che suonano nell’isola di Circe, pende le reti.

Stupefatto

pende le reti il pescatore, ed ode»[9].

Pregiudizi che nella critica romantica italiana e straniera si mescolano con approssimazioni notevoli e sempre piú coerenti. Non si creda che lo sviluppo di un problema critico possa venir considerato come un lento assommarsi preciso di intuizioni aderente ad uno scarto altrettanto preciso di «errori» fino ad una lucida epifania della formula che risolve perfettamente, che apre senza intoppo un certo mondo poetico; ma certo proprie nel caso del problema ariostesco, nel primo Ottocento, in una ricca confusione entusiastica di giudizi, si affacciano alcune intuizioni che con la loro presenza mostrano l’affermarsi di una nuova coscienza di questa poesia. Coscienza in cui il vero senso del valore è continuamente complicato con l’amore di un mondo realizzato come avventura, come racconto piú che come ritmo poetico (donde le intrusioni moralistiche, ideologiche, lo scambio di piano poetico e piano pratico), ma che con la sua ripetuta affermazione prepara un tessuto di direzioni critiche su cui vengono poi a campeggiare le pagine del Gioberti e le conclusioni del De Sanctis.

Una ripresa della diffusione di questa nuova coscienza, e d’altronde della confusione regnante nell’epoca romantica riguardo all’Orlando Furioso, si può avere, senza ricorrere ai maggiori esponenti stranieri della critica romantica, nel capitoletto dedicato all’Ariosto dal Torti nel suo Prospetto del Parnaso italiano. Il viaggiatore sedentario tutto liberato in fantasia («Egli ha tutto veduto coll’occhio del genio; egli ha descritto una prodigiosa quantità di fenomeni fisici e morali, i di cui originali non si sono giammai presentati alla sua vista. Si è detto che Omero non sarebbe stato il pittore della natura, se non avesse viaggiato la metà della sua vita. Ciò potrà esser vero; ma l’autore del Furioso, che in linea di colorito merita almeno di esser paragonato ad Omero, non è stato viaggiatore e ci somministra un grand’esempio di quanto è capace l’immaginazione concentrata in se stessa»[10], «Come non sembra ch’egli passeggi, per cosí dire, sopra tutti i climi della terra, e il mondo ch’egli abbraccia nella sua idea non s’ingrandisca, e non s’estenda sotto la sua penna»[11]), il poeta che crea come la natura («il suo genio fecondo e creatore, quasi librato al di sopra dell’universo, sembra presiedere a tutti i moti, come a tutte le passioni degli uomini, e nella sua vasta immaginazione animando ed abbracciando un immenso circolo di cose, egli guida, per cosí dire, la natura per mano»[12]), sono i termini piú vivi delle pagine del Torti ed indicano, in mezzo alla futile ricerca dei «difetti», dei paragoni di prammatica con Omero, delle proposte di revisione moralistica del poema, e di un’accentuazione drammatica e psicologica tipicamente romantica («L’Ariosto ha conosciuto il primo la natura e le varie gradazioni del nuovo patetico interessante, e ne ha sparso in tutto il poema i piú felici e commoventi risultati»[13]), quella disposizione ad allargare il gusto settecentesco della «varietà», a sentire il mondo ariostesco nella sua movimentata grandiosità, nella sua positiva libertà fantastica come un autentico valore creativo.

Con il Gioberti, a parte i giudizi tradizionali e sfocati ripresi nel tono ieratico e retorico del Primato («principe della cantica eroica», «prossimo all’unico Dante»[14]), si inizia la critica piú attenta dell’Orlando e dalle vecchie discussioni sull’unità o sul disordine del poema nasceva l’impressione di una libertà fantastica viva proprio nell’apparente dispersione: una libertà un po’ bizzarra e capricciosa che una coscienza piú approfondita del problema verificherà, come tutte le reali libertà, organizzata e saldamente strutturata. Il Gioberti accentuava nelle sue pagine, pur senza trarne tutte le conseguenze, da un lato il senso di una concretezza, di una presenza di cose («il poeta della fisica»[15]), ma alleggerita dal servire ad una nuova vita musicale, dall’altro una specie di eclettismo, di libertà fantastica per cui l’Orlando viene a trasformarsi in un viaggio in cui l’Ariosto è «tirato come ogni gran fantasia dall’istinto cosmopolitico»[16] e in cui la massima precisione geografica si mescola alla creazione di località completamente immaginarie «sí che introduce quell’arcana perplessità di contorni, che tanto garba all’immaginazione, quando entra nel mondo ignoto o poco conosciuto»[17]. E mentre biasima «i suoi trascorsi contro i costumi e la religione, riflessi del secolo» e cerca di definire la sua intelligenza alla luce della sua posizione religiosa («era uomo di un cervello troppo robusto e italiano per lasciarsi adescare alla misticità boreale e splenetica dei primi protestanti»[18]), nel trovare che l’unità del problema è data dallo spirito della cavalleria, la precisazione di un contenuto particolare come senso del vivere libero ed errabondo, eroico e fantastico – quasi piú forma ed amore del multiforme che argomento storico narrativo – segnala una scoperta che sarà ripresa piú tardi, come l’insistere su «l’accozzamento del naturale con lo strano e con l’improbabile»[19] indica la strada individuata e perseguita nelle sue originali e personali impostazioni dalla critica piú recente. E la serrata impressione del Gioberti dell’unico tono dell’Orlando spingeva il suo acuto ingegno a trovare sí due mondi: ironia e amore della cavalleria, ma uniti «perché questi elementi rampollano da un oggetto unico, cioè dal tipo cavalleresco ridevole in quanto manca di condegno scopo, bello e attrattivo in quanto abbonda di forza, di spirito, ed è sprigionato dalla prosaica realtà della vita odierna sí che nasce quella fusione intima dei due componenti, quella armonia e unità di concetti, quella fluttuazione dilettevole fra la gravità ed il riso, che si risolve per chi legge in un’impressione di gioia pacata e sorridente, per chi scrive in un’ironia dolce, arguta, socratica, leggiadramente maliziosa»[20].

Si avvicina cosí alle intuizioni del De Sanctis, piú profonde ed assolute, ma piú singolarmente divise e inconciliate: alla affermazione della totale esteticità del Furioso e della sua oggettività quasi impersonale, della satira e dell’indifferenza. Intuizioni che comunque segnano il punto di arrivo della critica romantica e il punto di partenza della critica moderna. Nel piú romantico dei suoi scritti sull’Ariosto, quello sulla poesia cavalleresca come genere[21], il De Sanctis si mostra ossessionato dallo schema concezione-situazione[22] come contrapposizione di astratto e concreto e, servendosene come passaggio dal Boiardo all’Ariosto, fa di quest’ultimo il poeta delle situazioni concrete, che sa calare ogni carattere (Fiordiligi per esempio) volta per volta in una particolare situazione. Determinazione in sé generica e contenutistica (ben diverso è sentire che volta per volta il personaggio vive nella situazione poetica dominante e che ad essa si adeguano i suoi segni psicologici) che doveva servire poi nel capitolo della Storia della letteratura italiana dedicato all’Ariosto per affermare la natura sostanziosa dell’arte ariostesca fino ad una forma di realismo in cui la situazione è cosí pregna, la naturalezza cosí vitale da sembrare quasi che le cose, non il poeta, si esprimano.

Dalle stesse pagine zurighesi poi scendeva la constatazione di un elemento umano affermativo accanto a quello meraviglioso del cavalleresco, l’accertamento di un sostrato affettivo che lo faceva esclamare nell’episodio di Zerbino: «Sentite quanto cuore aveva l’Ariosto!»[23]. Sforzo notevolissimo e che non va perduto, purché non lo si accentui in direzione di tono drammatico, entro una coscienza vigile del calore non astratto di una poesia densa di umanità, inevitabilmente «impegnata» e tuttavia realizzata completamente in linea, colore, musica.

La complessità dei problemi avvertiti dal De Sanctis nelle pagine zurighesi mal si riduce sotto l’unica formula dell’arte per l’arte che il grande critico mutuava al Gautier, alla corrente parnassiana e decadente sviluppata in Francia, ma con una ingenuità piú romantica e priva del carattere polemico e programmatico che quella formula aveva per le nuove scuole. E quasi per uno schematico parallelo con il Machiavelli (panpoliticismo) e in relazione alla caratteristica rinascimentale burckhardtiana, il De Sanctis vedeva nell’Ariosto il trionfo dell’interesse artistico non solo sopra ogni interesse ideale e psicologico, ma quasi prescindendone assolutamente. Poiché, costretto poi dal suo dissidio forma/contenuto e poeta/artista a dichiarare un contenuto a quella forma perfetta e senza pieghe, senza squilibri, senza abissi di ansie sentimentali o di tormenti intellettuali espliciti, egli arrivò ad attribuire alla forma ariostesca come contenuto la forma stessa e all’artista decretò il predominio sul poeta, che dalla tradizione foscoliana manteneva il suo carattere di vate, di annunciatore di nuovi mondi. Contraddizione che ha mantenuto il suo fascino pericoloso fino a noi, in quanto se appare giusta la svalutazione di un contenuto particolare e quel mondo si presenta tutto estetico, è assurda la riduzione calligrafica che degraderebbe l’Orlando ad un puro esercizio gustoso: donde il nome di caso-limite che ben si può dare al problema ariostesco e l’esitazione comune nel tentare l’esame critico di un’opera cosí chiara e cosí sibillina di fronte alla comune ricerca dei motivi, della formula che adegui la sua ispirazione fondamentale.

Contraddizione feconda del De Sanctis che l’intelligenza precisa di un Croce poteva ben denunciare alla stessa stregua della pretesa oggettività orlandesca (che è invece l’effetto di una potente trasfigurazione), ma che è ricca di riprese e di sviluppi piú organici. Cosí se attirato da quella forma sostanziosa, non priva di colorismo nello sviluppo delle sue linee perfette, il De Sanctis dalla contrapposizione di Dante ad Ariosto arrivava ad una descrizione del mondo morale di quest’ultimo come materiato di mediocrità borghese e di indifferenza bonacciona, egli aveva però liberato l’Ariosto da ogni sentimento pro o contro la cavalleria su cui la critica precedente aveva tanto insistito, e se aveva toccato un assurdo scambiando estrema soprarealtà naturalistica con impersonalità («è tutto obliato e calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale»[24]), aveva però indicato il sorgere del mondo ariostesco come dalla coscienza artistica di chi si è reso convinto di una speciale concretezza della visione del mondo, di una specie di natura naturans che secondo la espressione di Poe «presuppone un legame fra la natura nel piú alto senso e l’animo dell’uomo»: donde l’impressione giustissima di un sopramondo fantastico e tutto intimo costruito sulla misura del ritmo vitale in modo da sembrare naturale ed agevole.

Certo la conclusione desanctisiana è evidentemente inaccettabile («questo mondo dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia e non sentimento della natura, e non onore e non amore; questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una creazione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica»[25]), ma i motivi vitali colti dal grande critico romantico sono vari e resistenti ed una frase sola («si è cosí avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario»[26]) sarà suscettibile di una ripresa e di uno sviluppo essenziali come nel massimo sforzo di definizione del mondo ariostesco compiuto dall’Ambrosini con la formula del «naturale-meraviglioso» e nella massima ricreazione critico-descrittiva dell’Orlando costituita dal saggio del Momigliano.

Fra le intuizioni desanctisiane e le precisazioni crociane si collocano quasi in parentesi gli studi poco conclusivi del Carducci e il farraginoso tentativo positivistico del Rajna. Il Carducci, a parte la ricerca piuttosto generica dei precedenti dell’Orlando nell’ambiente ferrarese ancora dominato dall’atmosfera cavalleresca, nel nucleo del suo saggio[27] riduce la poetica ariostesca ad una finalità di divertimento («la finalità del poema romanzesco è in se stesso, è, come scriveva l’Ariosto al doge di Venezia, nel raccontare piacevole a ricreazione delle persone d’animo gentile»), combattendo l’idea del Gioberti circa la cavalleria (ma in realtà non questa era la tesi giobertiana e il Carducci dà quindi cattiva prova di precisione a questo proposito) ed escludendo ogni volontà d’ironia: «male fu scambiato per intenzionale ironia quel fino spirito del tempo nuovo che scherza luminoso e tranquillo fra i pennoni dei paladini e i veli delle dame del buon tempo antico». Cosicché finiva per rilevare il gusto classico, proporzionato dell’Orlando in una certa confusione (appoggiata proprio sulla confusione di una famosa pagina del Panizzi) fra senso superiore dell’unità e coerenza del racconto in cui ogni episodio secondario appare necessario allo sviluppo dell’intreccio.

Preoccupazione sostanzialmente razionalistica che ben collima con quella cura positivistica che è al centro della fatica di Pio Rajna nelle sue Fonti dell’Orlando Furioso. La tesi del dotto filologo doveva consistere infatti nella constatazione di un razionalismo ariostesco («Anziché un poeta per eccellenza fantastico, l’Ariosto è un poeta per eccellenza ragionatore»[28]) capace di ordinare ed intrecciare episodi ben diversamente dai romanzieri precedenti, di fronte ai quali il poema veniva cosí ad essere superiore e piú perfetto «come genere» per quanto tutto impinguato di «fatti» altrui ripresi e manipolati in una specie di «contaminazione originale» in cui la critica filologica mortificava lo spirito poetico che aveva vissuto e utilizzato, per una sua creazione, materiale poetico precedente. Era la volontà pseudoscientifica di spiegare dall’esterno un’opera d’arte, di trovarne le genesi quasi in un accumularsi inevitabile di avventure, di direzioni contenutistiche che finalmente culminavano nell’esemplare piú completo. Esigenza che, non cosí stravolta ed ingenua, poteva giustamente tradursi in bisogno di storia letteraria, di trama culturale indispensabile a comprendere storicamente una poesia, anche la piú totalmente liberata, ma che si appiattiva in una pura ricerca inquisitoriale di plagi, imitazioni, a volte piú presenti al terribile ricercatore che non al poeta, lettore di pochi libri essenziali. Che anche questo è l’assurdo di quelle ricerche: presupporre nel poeta la conoscenza diretta (non piú tosto la suggestione piú generale) di tutti i testi esistenti prima di lui come miniera di argomenti, di fatti; e peggio ancora vedere la genesi di un’opera d’arte come costruzione di pezzi aggiuntisi col tempo quasi automaticamente non tenendo conto del fatto che ogni storia è inevitabilmente volta per volta storia a parte subiecti e che la vera storia letteraria, mentre non deve giungere ai compartimenti-stagno delle monografie, deve sentir sempre un fluire culturale nei suoi impulsi personali, nei suoi centri originali individuati. Senso nuovo della storia letteraria (non fonti, non monografie soltanto) che potrebbe indurre a riprendere la ricerca del Rajna guidandola a scopi piú legittimi: ricercare e precisare il carattere della suggestione del mondo romanzo come fu presente all’Ariosto nella costruzione del suo mondo rinascimentale, la maniera in cui quelle avventure, quelle potenti entità fantastiche furono risentite in modi cari del cuore e della fantasia, in cui il poeta si serví della grande civiltà cavalleresca a creare una patina di sfumatura e lontananza alle sue grandi visioni rinascimentali, e soprattutto come egli utilizzò per suoi precisi intenti artistici modi di cantastorie, cadenze musicali e sintattiche dei poeti a lui piú vicini.

Ma il problema critico ariostesco, che avrebbe potuto essere arricchito da uno studio di cultura letteraria ben diverso da quello del Rajna, venne a riproporsi con maggior chiarezza, e in certo senso con una precisione che poteva rischiare l’aridità della definizione, ai primi del Novecento, quando il Croce riprese le intuizioni desanctisiane trovando errate le formule «l’arte per l’arte», «oggettività» ariostesca, chiarendo, secondo la tipica forma mentis crociana, tutti gli pseudoproblemi concresciuti con l’Orlando e colpendo ogni ricerca di contenuto particolare, quale ad esempio quella del Canello per cui l’Ariosto avrebbe messo in burla il mondo contemporaneo perso dietro l’amore nelle sembianze dei paladini in corsa affannosa dietro ad Angelica. Dopo la stroncatura di questi pseudoproblemi (poema epico o no, serio o giocoso, unità d’azione o meno, «se avesse protagonista o eroe, se gli episodi fossero legati all’azione, se osservasse il decoro e la storia, se contenesse allegoria e quale, se obbedisse alle leggi del pudore e della morale, se rispondesse ai buoni esemplari, se gli spettasse e in quale misura il merito dell’invenzione, se vincesse la Gerusalemme o se ne fosse vinto ecc.»[29]), il Croce propose la formula «amore dell’armonia» per integrare ed inverare quella desanctisiana nella sua esigenza di una passione assoluta per la bellezza.

Formula certo di estrema importanza che potrebbe svolgersi anche come espressione del ritmo vitale trasportato in un sopramondo fantastico, affondandola piú nell’intima esperienza del poeta e meno rilevandola in una sorta di estasi neoplatonica contraria alla natura ariostesca. Formula che d’altra parte corrisponde bene al mondo rinascimentale e alle proporzioni del mondo ariostesco, ma che lascia aperto il problema del tono dell’Orlando, il tono dell’armonia ariostesca, della sua natura stilistica, ed esita fra la sensazione della propria insufficienza («La poesia del Furioso, come del resto ogni poesia, è un individuum ineffabile; e l’Ariosto, poeta dell’Armonia, cosí e cosí determinato, non coincide mai del tutto con l’Ariosto, poeta ariostesco, che è poeta dell’Armonia e non solo dell’Armonia, determinato nei modi da noi detti e anche in altri sottintesi o non dicibili»[30]) o il desiderio di estendersi ed adeguare il contenuto vitale dell’Ariosto di cui viene in certo senso ad essere un simbolo inevitabilmente incapace di rendere la complessità della vita intera di una poesia.

Subito dopo la sistemazione crociana si prospettò la tesi di Luigi Ambrosini, che mirava non tanto a definire il nome dell’intento ariostesco, quanto il modo d’esser del suo mondo realizzato che al critico apparve come un terzo regno fuori della storia del tempo, detto comunemente cavalleresco (ed era il ritorno piú accorto della tesi giobertiana), ma in realtà «regno del naturale meraviglioso»: «E cosí alla fine hai la perpetua illusione di un mondo che non è il nostro comune mondo, perché ci son troppe meraviglie, e quegli uomini, non sono creature di carne che godano e patiscano come noi, né sono i cavalieri della storia, eroi di una nazione e di una favola seria, ma cavalieri della fantasia, ideali figure, purissime forme liriche, idealizzazioni della sanità della forza dell’audacia, come anche del capriccio e dell’avventura, svagati, mobili, estrosi, ridenti e piangenti come grandi e irrequieti fanciulli, che si rincorrono da un capo all’altro del mondo, pronti ai richiami dei sensi, alle lusinghe delle cose, terribili nelle armi, inermi dinanzi ai propri capricci. E d’altra parte quel dell’Ariosto non è un mondo fuor della natura e della vita, perché variato ad ogni passo di figure e di aspetti i piú naturali e umani del mondo, e sopra tutto pieno di quella sapienza e indulgenza e di quel lume di ragione, che sono il governo dell’uomo non già in una vita immaginaria e sognante, di un regno di perfezione ultraterreno, celeste, ma proprio su questa terra e in questa nostra vita di ogni giorno, per chi voglia e sappia viverla in una sfera armoniosamente serena e relativamente beata: che è l’animo dell’Ariosto e la sfera armoniosa della sua arte»[31].

Formula del «naturale meraviglioso» che, pur nell’approssimatezza della sua applicazione, ha il merito di trovare l’equivalente della magia ariostesca operante la creazione di mondi senza enfasi, naturali e pur librati in una potenza di sogno piú audace di quella di qualunque romantico «veggente».

A quelle pagine, fondamentali nella loro sobrietà, si avvicina il saggio del Momigliano[32], che rappresenta il tentativo di commentare e ricreare, apparentemente secondo esteriori schemi ideali (Atlante, Orlando, Rodomonte, Angelica, Fiammetta), ma in realtà secondo questo motivo della realtà magica, della naturalezza del sogno, e della realtà musicale, tutto il mondo dell’Orlando. Era l’applicazione vasta – e ambiziosa di un proprio effetto poetico – della formula «realtà e sogno» individuata dal Momigliano in un articolo uscito sul «Giornale storico della letteratura italiana» del 1925, e concordante con la formula indipendente e contemporanea dell’Ambrosini.

Ma per il Momigliano questo mondo o sopramondo di nuove dimensioni irreali e pur concrete è ricco di sfumature sentimentali, di affetti appassionati e perfino tragici, secondo una tendenza psicologica e impressionistica che in quel critico trova un’originale e solida vitalità; il che individua meglio certi episodi sottraendoli al comune denominatore del fiabesco, ma d’altra parte, anche se il Momigliano insiste sempre sulla trasfigurazione di tali affetti mediante l’illusione del sogno e della musica, porta spesso un certo languore, un romanticizzamento che intenerisce arbitrariamente la vita limpida dell’Orlando. E questa esuberanza di rilievo psicologico confluisce praticamente con un certo preziosismo di sfumato, di sospeso che, non appena tocca l’effettivo aereo ariostesco, lo soffonde di una tenuità non sua.

Sono questi i massimi risultati della critica moderna sull’Orlando; e non diremmo che rappresentino nuovi acquisti decisivi in vista di uno sviluppo ulteriore del problema ariostesco gli studi bertoniani sul linguaggio, che si arrestano di fatto o ad un’elencazione superficiale di lessico o riprendono con altra etichetta le conclusioni della critica estetica. Certo è che sulla precisa indagine storico-critica del linguaggio poetico nella sua direzione di colore e disegno musicale deve avviarsi una critica ariostesca che tenti, dopo la formula crociana e le interpretazioni dell’Ambrosini e del Momigliano, un nuovo esame del grande poema: non un esame calligrafico, un pedantesco accertamento di commento continuo, ma – al di là di formulazioni e di ricostruzioni troppo generiche e invece dal seno di uno studio, storico-critico, di poetica e di poesia – una individuazione piú storica e piú concreta del tono ariostesco, del metodo poetico con cui quel mondo è stato costruito non solitario e d’altra parte non spiegabile solo sociologicamente.

Fuori dell’entusiasmo romantico per l’avventura fantastica (quasi per un lucido e mobile Märchen di altissima classe), fuori degli pseudoproblemi che il Croce ha spazzato, fuori di una semplice degustazione estetizzante a cui facilmente conduce la reazione ad una considerazione del poema nel suo insieme e non nei suoi valori puntuali, una nuova critica ariostesca deve anzitutto portarsi piú vicina al testo ariostesco che troppo spesso è giudicato come in un ripensamento di avventure, di generali momenti, mentre va esaminato con l’attenzione alla linea della musica, alla coerenza poetica delle immagini cosí come facciamo con quei poeti «lirici» di fronte ai quali la parola ed il tono delle parole legate in poesia formano l’oggetto piú ravvicinato della nostra critica. Un attento rilievo dei risultati poetici ariosteschi in ogni singolo tempo della grande sinfonia, una precisazione entro la grande linea ed entro quella speciale sfera di dimensioni piú che reali e pur cosí concrete che si potrebbe chiamare in termini di cultura un sopramondo rinascimentale, una discussione sul valore dei mezzi espressivi dell’Ariosto[33], della sua «ars», tanto vantata come generico labor limae, ma non investigata nelle sue intenzioni, nella sua ricchezza formale, nella sua coerenza e nella sua abbondanza di direzione ispirata.

Uno studio di poetica, in un artista cosciente e ricco come l’Ariosto, ci sembra perciò essenziale (utilizzando i risultati piú alti della critica del Novecento) per arrivare non ad una rivoluzione, ma ad una precisazione piú concreta del problema critico del Furioso[34].


1 Si veda specialmente la lettera a Francesco Rinuccini del 1640 (nella edizione degli Scritti letterari di Galilei, a cura di A. Chiari, Firenze, Le Monnier, 1943, p. 357) in cui la superiorità dell’Orlando sulla Gerusalemme viene individuata nella maggiore ricchezza di racconto e nella maggiore precisazione dei personaggi.

2 Cito nella traduzione del Carducci nel saggio L’Ariosto e il Voltaire, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIV, pp. 120-121.

3 Ivi, p. 132.

4 Ivi, p. 133.

5 W. Goethe, Die Weimarer Dramen, Zürich, Artemis, 1954, p. 214.

6 E piú tardi nel Leopardi che nei famosi versi della canzone Ad Angelo Mai sapeva adeguare l’impressione gioiosa e sognante del poema, romanticamente valorizzando il carattere di iridescente leggerezza, di giuoco altissimo destinato a cadere nei tempi infelici della maturità e della ragione.

7 U. Foscolo, Opere, ed. naz., vol. V, Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, Firenze, Le Monnier, 1951, p. 181.

8 «La tela avvilupparsi di soverchio [...]» e cita in proposito il giudizio dell’Alfieri (Vita, parte I, II, cap. IV) che non sopportava «quella continua spezzatura delle storie che nel meglio del fatto ti pianta lí».

9 La traduzione italiana da cui cito è in U. Foscolo, Opere, a cura di F.S. Orlandini e E. Mayer, Firenze, Le Monnier, 1940, vol. X, pp. 183-184. In U. Foscolo, Opere, ed. naz., vol. XI, Saggi di letteratura italiana, a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1958, t. II, pp. 122-125 (testo in lingua inglese), la citazione delle Grazie, piú correttamente, è «...Stupefatto / perde le reti il pescatore ed ode». Per le forme «perde»/«pende» si rinvia alla nota di Mario Scotti alle pp. 807-808 di U. Foscolo, Opere, ed. naz., vol. I, Poesie e carmi, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Firenze, Le Monnier, 1985.

10 F. Torti, Prospetto del Parnaso italiano, Firenze, Pagni, 18282, vol. I, p. 146. La prima edizione è del 1808.

11 Ivi, p. 152.

12 Ivi, p. 154.

13 Ivi, p. 146.

14 V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Torino, UTET, 1920, vol. III, pp. 19-20.

15 Ivi, vol. III, p. 20.

16 Ivi, vol. III, p. 21.

17 Ivi, vol. III, p. 22.

18 Ivi, vol. III, p. 34.

19 Ivi, vol. III, p. 32.

20 Ivi, vol. III, pp. 30-31.

21 F. De Sanctis, Lezioni zurighesi, in Verso il realismo, a cura di N. Borsellino, Torino, Einaudi, 1965, pp. 5-197 (vol. VII dell’ediz. delle Opere, a cura di C. Muscetta).

22 Si veda in proposito a questo punto essenziale della critica desanctisiana il mio saggio L’amore del concreto e la situazione nella prima critica desanctisiana, «La Nuova Italia», 1943, e ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 19632, pp. 99-116.

23 Lezioni zurighesi cit., p. 187.

24 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, ed. cit., vol. II, p. 26. Già V. Gioberti (Del primato morale e civile degli italiani cit., p. 28) aveva osservato: «Questa mancanza di teleologia, non che nuocere esteticamente al poema, contrasegna il suo pregio speciale, e merita un’attenta considerazione, chi voglia penetrare appieno il merito dell’Ariosto ecc.».

25 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, ed. cit., vol. II, p. 40.

26 Ivi, vol. II, p. 22.

27 Su l’Orlando furioso, in Opere, ed. naz. cit., vol. XIV, pp. 86-87.

28 P. Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze, Sansoni, 1900, p. 531.

29 B. Croce, Ariosto, Shakespeare, Corneille cit., p. 5.

30 Ivi, p. 30.

31 L. Ambrosini, Teocrito, Ariosto, minori e minimi, Milano, Corbaccio, 1926, p. 236.

32 A. Momigliano, Saggio sull’Orlando Furioso, Bari, Laterza, 1928. Sul saggio del Momigliano si veda anche il mio scritto Attilio Momigliano, «Il Ponte», 6, 1960, ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit., pp. 237-261.

33 Per quanto la tendenza ariostesca sia chiaramente piú alla linea che alla singola espressione, si è mai osservato che l’intensità di espressioni, come quella del XIII, 35 «sorrise amaramente ecc.», richiede un suo esame estetico entro la musica ariostesca come in tutt’altra poetica lo richiede un’espressione leopardiana o petrarchesca se non si vuole scambiare la meravigliosa fusione del linguaggio ariostesco per la facilità di una illustrazione alla brava? Intendeva rispondere a questa volontà il mio commento al Furioso, Firenze, Sansoni, 1942.

34 Per una vera e propria storia del problema critico ariostesco sino ai piú recenti studi rinvio alla mia Storia della critica ariostesca, Lucca, Lucentia, 1951. Si veda anche R. Ramat, Ariosto, nel vol. I dei Classici italiani nella storia della critica, opera da me diretta, Firenze, La Nuova Italia, 1954, nuova edizione accresciuta, 1960, e, sempre di R. Ramat, La critica ariostesca dal secolo XVI ad oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1954; nonché G. Fatini, Bibliografia della critica ariostea, Firenze, Le Monnier, 1958. Sullo studio di «poetica» si veda ora il mio chiarimento metodologico Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963 (ora in Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993).